Cronache da un altro mondo

Disquisizioni e orientamenti su questioni esistenziali, sia spirituali che materiali. In gran parte espressioni originate dal genuino punto di vista di un ragazzo particolare e interpretate fedelmente da chi ha avuto modo di conoscere profondamente le sue qualità speciali e si è assunto l'impegno d'assisterlo con precisione nello sviluppo e nell'esposizione delle sue idee e sentimenti, confidando in un esito piacevole e fruttuoso. [Leggere "PRESENTAZIONE" nell'archivio - 12/06/2006]

12.12.07

XXIV° - UNA DOMENICA PUO' "BASTARE" PER TUTTA LA VITA - 3°

UNA DOMENICA PUO' "BASTARE" PER TUTTA LA VITA
- terza parte -
(continuazione dal XXIII° post)
―Che cielo stupendo c’è oggi, Elena! ― disse Leonardo a sua moglie, intorno alle otto e trenta, mentre la famiglia Laterza al completo stava uscendo da casa con vitalità in gioioso crescendo.
Oh, sì! Era proprio una radiosa domenica di fine maggio, una di quelle giornate in cui la calura, che prelude all’avvento dell’estate, invoglia le femmine occidentali a denudare gran parte del loro corpo, giustificando la piccante esibizione con le sfrontate ragioni della moda.
Subito dopo essersi beato della visione del cielo, completamente terso e di un azzurro insolitamente intenso, Leonardo venne attratto dalla snella e giovanile figura di sua moglie e non si trattenne dal manifestarle l’apprezzamento che ella gli aveva immediatamente suscitato.
―Caspita, Elena! Agghindata così, meriteresti di essere accompagnata in luoghi ben diversi da uno zoo safari! In fantasiose atmosfere sexy, dovresti essere introdotta oggi!
―Peccato, che anche questa domenica ci si debba portare appresso le figliole.― mugugnò Elena che, sebbene alle sue due figlie non facesse mancare nulla per tutto quanto riguardava le loro esigenze materiali, come madre non era un granché ―Una giornata, bella e serena come l’odierna… ogni tanto… solo per noi due… ce la meriteremmo proprio.
E’ doveroso precisare, però, che, se le bambine, una di sei anni e l’altra di quattro, non pativano carenze materiali, il merito era tutto di Leonardo. Infatti, la sua attività nel mondo degli investimenti internazionali di capitale, principalmente legata all’edilizia alberghiera e a quella “di lusso”, procurava alla famiglia Laterza delle entrate finanziarie di tutto rilievo, alle quali la moglie non contribuiva neanche con un solo centesimo di euro. Per contro, ella si dava un gran da fare nel compito di esaurirle.
Leonardo, invece, non era succube di particolari stimoli dispendiosi, senza che per questo lo si potesse definire una persona davvero parsimoniosa. Ogni tanto si concedeva il piacere di farsi un bel regalo, concernente, quasi sempre, un qualcosa di idoneo a rendere più confortante l’espletamento della propria attività lavorativa. E, per l’appunto, proprio nella settimana, che quella domenica di maggio stava chiudendo, s’era fatto un regalo, più bello di tutti i precedenti: aveva acquistato un’automobile fantastica: l’Audi dei suoi sogni. Una cifra pazzesca! All’incirca il reddito triennale di un impiegato medio. E, poiché non sopportava le scadenze di pagamento, aveva corrisposto in contanti il prezzo dell’auto. Il fantastico acquisto era stato reso possibile dalla squisita professionalità con cui Leonardo era riuscito, due mesi addietro, a far firmare due robusti contratti, uno da un pezzo da novanta di Kassel e l’altro da uno di Hannover. Le percentuali di sua spettanza gli erano state accreditate di recente e Leonardo, dopo aver consultato la sua agenda e aver constatato l’abbondanza e la consistenza degli appuntamenti previsti nel futuro prossimo, aveva fugato ogni preoccupazione e allentato ogni freno prudenziale dicendo a se stesso: «Ma sì! Facciamo questa follia! No, non finiremo sul lastrico.»
Il regalo era stato presentato come un bel dono di prestigioso rinnovamento fatto a tutta la famiglia, ma in realtà ne avrebbe usufruito appieno soltanto Leonardo. Per svolgere il suo lavoro macinava ogni mese una quantità paurosa di chilometri e, ovviamente, erano assai di più le ore che consumava impugnando il volante rispetto a quelle che trascorreva a casa, in cui era presente non più di sette giorni su trenta. Sette giorni, al massimo otto, di coccole, dato che Elena, come moglie e ancor più come amante, era quasi perfetta.
La coscienza di Leonardo non nutriva dubbi a questo proposito: anche i sette giorni di coccole mensili, oltre all’invidiabile agiatezza in cui viveva la sua famiglia, gli venivano concessi, se non proprio garantiti, da quella che lui considerava la migliore invenzione realizzata dall’uomo, ovvero l’automobile. E a Leonardo era capitato abbastanza spesso di meditare seriamente su come sarebbe potuta essere la sua vita in assenza di questo individualistico mezzo di trasporto. Non era che l’essersi messo a svolgere il suo lavoro attuale fosse stata la conseguenza di una sua libera scelta, quale scelta veramente libera può essere effettuata nell’ambito di una società civile?, ma, dato che la fatalità sociale aveva disposto le cose in quel preciso modo, Leonardo si poneva, talvolta, codesto interrogativo ansiogeno: come avrebbe potuto arrangiarsi altrimenti, se, per un motivo qualsiasi, gli fosse venuta a mancare la disponibilità di un’automobile di sua proprietà? Nulla di strano, nulla di patologico in un pensiero di questo genere lievemente inquietante. Apparteneva alla medesima specie di quei pensieri fastidiosi che formulano interrogativi sull’eventuale chiusura della fabbrica in cui si è impiegati da anni o su come potrebbe tirare avanti la propria famiglia, se per caso maligno si venisse invalidati gravemente da una malattia, subdola nell’incubazione e improvvisa nel manifestarsi. Pensieri molesti che la mente, di tanto in tanto, genera svegliandosi al mattino, consapevole di dover affrontare non la terra, assai prodiga se non avvelenata o snervata, non la Natura in genere, benigna se non molestata con insistenza ottusa, bensì l’insulsaggine, l’egoismo, la cattiveria e l’indifferenza di uomini che si muovono rassegnati in un arido ambiente artificiale, nei quali è civilmente costretta ad imbattersi quotidianamente.
La condizione dell' uomo é una condizione di guerra di ciascuno contro ogni altro., ha detto a suo tempo Hobbes e, con buona pace di tutti gl’impostori che sostengono la teoria della “socialità” innata nell’uomo, ha visto giusto. Una condizione che nel quotidiano sociale diventa un guaio enorme, pressoché insopportabile, poiché ogni individuo è obbligato a convivere, fianco a fianco, con chi gli è contro. Una provocazione perpetua e parecchio snervante, che in un contesto esistenziale perfettamente naturale non avrebbe modo di presentarsi. Inoltre, nelle società civili si deve convivere finanche con qualcosa di ancor peggiore. La condizione di lotta, malignamente trasferita da un ambiente naturale, aperto, in un ambiente artificiale, chiuso, ha dato origine ad aggregazioni di persone con interessi materiali consimili e la lotta tra individui si è esasperata diventando lotta di supremazia tra gruppi, così cancellando con azioni collettive ogni residuo d’individualità, di quella individualità per cui, in assoluto, l’Esistenza E’. La realtà più eclatante di questo svilente stato di cose è data dal fatto che l'esistenza di molti umani, tantissimi, da vita basata sulla propria individualità è diventata vita di partito, vita per il partito. Niente di esistenzialmente valido. Anzi: tutt’altro! Un "tutt'altro" con epilogo drammatico.
Se, poi, meditando sulla frase di Hobbes le si associa la seguente osservazione di Arthur Schopenhauer: Ciò che rende socievoli gli uomini è la loro incapacità di sopportare la solitudine., si può incominciare ad intuire in che razza di processo di degenerazione avvilente siano state incanalate la fierezza e la dignità dell’uomo che si è lasciato governare dagli Scaltri di ogni epoca. E, del resto, parlare oggi di dignità umana ha un che di marcatamente anacronistico. Le innumerevoli masse di corpi, in cui lo spirito ha cessato di Essere, hanno permesso ai sorveglianti, prezzolati degl’impostori con la moneta faticosamente fornita da queste stesse masse amorfe, di subordinare l’esistenza umana agli obbiettivi di una foresta di telecamere, di ridurre ogni individuo in numeri impressi in una tessera magnetica e presto queste stesse masse, per le quali vivere è esclusivamente una questione di durata nel tempo, accetteranno in silenzio umiliante perfino la schedatura genetica del cittadino. E così l’impostura, che con ingegnose quanto fraudolente prassi s’è arrogata il manierato e violento diritto di esercitare il maligno potere dell’uomo sull’uomo, riuscirà sempre meglio a perpetuare il proprio potere spiritualmente mortale, mascherando i suoi intenti di sicurezza di casta con le insostenibili, ma accuratamente e assiduamente propagandate, giustificazioni che parlano di un ossessivo impegno per una sicurezza universale, di per se stessa incompatibile con il Valore e il Senso dell’Esistenza Umana e, quindi assolutamente irrealizzabile. Camuffamento, che con il trascorrere del tempo serve a celare sempre meno. Inarrestabile declino dell’influenza della mistificazione, che sta originando isteria crescente negl’impostori e nei loro “compagni di merende”. Sostanziose merende! Quest’ultimi, che grazie all’impostura ancora in auge non sanno quale dolorosa ed angosciante penitenza quotidiana sia poter mettere un pezzetto di qualcosa sotto i denti e al contempo riuscire a rimanere con il capo riparato da un tetto, non appena l’insofferenza popolare riscuote un diffuso consenso di piazza si danno un gran da fare per far figurare come insulti e banalità le verità acclamate dalla piazza, che sta dimostrando di saper dar inizio all’opportuno perfezionamento del proprio spirito critico, e non si trattengono più dallo strillare tremebondi. Dalle loro bocche inaffidabili, subito dopo che la piazza ha giustamente e chiaramente rinfacciato agl’impostori Tizio e Caio le rispettive malefatte, escono alterate e alteranti locuzioni, perfino di questo genere inqualificabile: «Cosa accadrebbe, se un giorno all’improvviso un pazzo, uno squilibrato, ascoltati quegli insulti contro Tizio e contro Caio, premesse il grilletto?» Cosa accadrebbe?! Accadrebbe che la saggia azione della magistratura accerterebbe se il grilletto premuto sia stata un’azione compiuta da un pazzo, da uno squilibrato, oppure da un sano di mente e poi, seguendo la medesima prassi esaminerebbe il secondo sospettato di squilibrio mentale, e anche il terzo, e ancora il quarto e così via fino a quando le carceri vecchie e nuove non strariperebbero abbondantemente e gl’impostori s’accorgerebbero che non ci sarebbe più nessuno impegnato per quattro soldi a preparare il pane per loro. E tanto meno il companatico! Senza il popolo, che proprio loro bistrattano in maniera indecente, e terminate le scorte alimentari accantonate all’uopo, cosa potrebbero fare gl’impostori che, all’occorrenza, non saprebbero coltivare per se stessi una sola carota?
Altri, supremamente interessati a mantenere potere e privilegi, si scagliano contro quelle masse popolari, che sembra abbiano incominciato a prendere coscienza della loro dignità perennemente offesa e sono scese nelle piazze determinate a mutare il brutto andazzo delle cose sociali. Si scagliano contro biascicando le solite parole che formano una frase divenuta lisa e scricchiolante per quanto è stata abusata: «La politica si fa nelle istituzioni, non nelle piazze.» Ottima esortazione alla partecipazione politica! No! Basta con le mistificazioni! La politica, dato che in una società la si deve fare per forza di cose, va messa in pratica nella quotidiana realtà pubblica e le istituzioni dovrebbero servire soltanto da appoggio affidabile per la politica di ogni cittadino. Invece, nella società le istituzioni sono poste ad esclusivo servizio e protezione del potere. Perciò l’invito a fare politica nelle istituzioni suona molto male. Eh, già! Nelle istituzioni le chance del popolo vengono ridotte a zero e, quindi, la frase biascicata equivale, nel suo valore intrinseco, a: «Non reclamate! Ubbidite in silenzio, sudditi! Le decisioni spettano soltanto a noi.» «E no!», urla la piazza con veemenza, «Basta lasciarsi tappare la bocca dal pretesto fornito da regole, prassi e leggi imbastite ad hoc! Un "hoc" molto equivoco, troppo equivoco. Basta con lo sconveniente invito al dialogo, che permette all’impostura di non ascoltare in tutta tranquillità ciò che non vuole ascoltare. Sorda e indisturbata!»
Fin dai tempi più remoti l’impostura è sempre riuscita, col deterrente o con l’intervento della violenza istituzionalizzata, a far adattare le persone alle sue leggi, constatata la naturale impossibilità assoluta di adattare le sue leggi alle persone, ma proprio questa irreversibilità rappresenta una delle principali delegittimazioni di tutte le leggi formulate dal potere esercitato dall’uomo. Se è giusto, e sensatamente non può essere altrimenti, che un individuo integro si adegui spontaneamente alle Regole Naturali, espresse da un’Entità smisuratamente superiore alle facoltà di qualsiasi uomo e che, essendo provviste di ampio respiro universale, non si permettono mai d’invalidare il Libero Arbitrio, il medesimo individuo non può proprio adeguarsi alle soffocanti leggi dell’uomo.
A questo punto, con la stabilità della forzata ubbidienza a regole e leggi che vanificano l’unica occasione d'esistenza di chiunque, sembrerebbe che il Male sia riuscito a vincere definitivamente la sua acerrima battaglia contro la Creazione, da lui potentemente invisa, ma la sconfitta del Bene è un’ipotesi talmente assurda da permettere, ai sani di mente, di confidare in altri mutamenti radicali dell’Eterno Conflitto in corso. Perciò, a rigor di logica, si può giustamente ipotizzare che, se non sarà la fierezza e la dignità dell’uomo, diventato meschino e viepiù sorvegliato, a riuscire nell’intento di scrollarsi dalle spalle l’impostura mortale, sarà la Superiorità Assoluta della Natura ad intervenire in maniera appropriata per spazzar via di botto quanto istituito dal Male. E, constatata l’inveterata incapacità di ravvedimento dell’uomo civile, sembra proprio che la Natura si stia già muovendo minacciosa.
Leonardo, comunque, s’era integrato nella realtà sociale a tal punto da non aver mai provato a vagliare seriamente le ragioni profonde che ad intervalli irregolari, per lui bizzarri, gli facevano affiorare alla mente quell’interrogativo sintetizzante le sue apprensioni particolari.
Il suo pensiero, però, non era sempre stato contrassegnato da un’indolenza intellettiva che, purtroppo, col trascorrere degli anni s’era fatta sempre più possessiva. Ad esempio, c’era stato un tempo, tra il sedicesimo e il diciassettesimo compleanno, in cui Leonardo era stato fortemente tentato, fino all’accurata pianificazione di marchingegni piuttosto interessanti, dalla fremente determinazione di preparare trappole a danno serio dei cacciatori e gioiva ogni qualvolta gli arrivavano notizie di cacciatori che, invece di colpire un fagiano spaventato o un leprotto in fuga disperata, impallinavano, per errore o per altro, un loro tristo “collega”. Troppo pochi, però, gl’incidenti di questo tipo auspicabile, per sperare di giungere con questa modalità all’eliminazione totale di una genia di uomini che, per divertimento e non per necessità, fanno strage di creature indifese, che manco disturbano quanto l’uomo e che chiedono soltanto di poter vivere rassegnate in quel che rimane di un ambiente sempre più guastato, ma non guastato da loro. E il pensiero, che sorreggeva il suo intento di non subire e agire, era lineare, inconfutabile sebbene grezzo e, soprattutto, autonomo: la fauna appartiene a tutti e perciò nessuno può approfittarne. Essendo un bene comune, non spartibile e per giunta diventato molto prezioso negli ultimi tempi, è anche mio e io ho tutti i diritti di difenderlo in ogni modo dagli attacchi di altri che considero malfattori scriteriati. L’inghippo del pagamento di una licenza, denaro che va allo Stato, per avere il privilegio di commettere un cinico sopruso non mi riguarda, non voglio essere costretto a fingere di prestargli fede. Neanche m’interessa che il rilascio di un certo tipo di licenza d’uccidere faccia prosperare le fabbriche d’armi, i cui proprietari versano altri soldi allo Stato. Non m’interessa punto lo Stato, allorché si scontra con i Valori Esistenziali ben esposti dalla Natura.
Inoltre, a Leonardo sedicenne cominciavano a balenare nella mente scampoli di un pensiero molto più ampio, che gl’insinuavano i primi dubbi sull’essenza stessa del concetto di Stato. Se lo Stato siamo veramente noi, il popolo, è moralmente conveniente che tutti coloro i quali asseriscono di essere i nostri rappresentanti si guardino bene dall’incassare a nostro nome denaro ambiguo e di farne uso. D’incassarlo, ad esempio, permettendo ad alcuni di danneggiare l’indivisibile patrimonio comune, mentre l’interesse principale di tutta la sporca faccenda è rivolto all’incasso di altro denaro equivoco proveniente dal mantenimento della florida attività commerciale delle fabbriche d’armi. Ed è meglio che sulla faccenda non vengano sollevate questioni di maggioranza e minoranza. L’Esistenza, in quanto esperienza finalizzata dello Spirito nella Materia, ha un suo preciso valore, e quindi un senso preciso, per quanto riguarda esclusivamente la vita del singolo individuo. La collettività è un nulla rispetto alle Finalità Esistenziali. Non possiede uno spirito unico che abbia come scopo finale l’accesso all’Universo Spirituale Eterno, nel Quale, di certo, non si può accedere in comitiva o in virtù di meriti collettivi. Se, invece, i rappresentanti del popolo si permettono di rilasciare licenze per attività che depauperano il patrimonio comune, ciò significa che codesti esimi signori sono convinti di aver ricevuto dal popolo non il solo diritto di rappresentanza, bensì lo scandaloso diritto a possedere tutto. Alla faccia della sbandierata sovranità popolare!
In seguito, diventato adulto, Leonardo ebbe modo di veder confermati appieno tutti i suoi sospetti alla luce dell’applicazione di una tassa inammissibile sulla casa di ogni cittadino. Ma, sebbene si trattasse di qualcosa di altamente umiliante, Leonardo non prestò la dovuta attenzione allo spiacevole evento. Crescendo, il suo spirito s’era infiacchito parecchio e tutta la sua persona s’era svilita a tal punto da essere propensa ad accettare gli eventi senza reagire. Aveva posto la locuzione “e io, cosa ci posso fare?” a mo’ di pietra tombale sulla propria personalità.
Al giovanissimo Leonardo succedeva anche di riesaminare qualche suo pensiero concettuale iniziando la disamina da un’argomentazione manco accennata nella prima formulazione dello stesso pensiero che intendeva vagliare. Il che era sintomo significativo di un intelletto notevole, capace di elaborare i concetti per mezzo di un’intensa e proficua attività inconscia. E così, ad esempio, si sorprendeva a pensare che, a ben vedere, la collettività poteva essere considerata un insensibile soggetto immortale: perivano i suoi componenti che, però, venivano sempre sostituiti automaticamente, di modo che la collettività in sé non ne risentiva minimamente. Immortale in maniera relativa, non eterna. Essendo una creatura dell’uomo, sarebbe durata fintantoché l’uomo non avesse deciso di sopprimerla. Ovvio che un’Entità qualitativamente superiore all’uomo avrebbe potuto farla sparire in qualsiasi momento. Infine, Leonardo chiudeva in maniera coerente la meditazione lanciando un invito a un auditorio invisibile: «Provate a constatare mentalmente come i Valori Esistenziali e il Senso della Vita sbiadiscono e scompaiono in uno scenario in cui la Morte sia immaginata assente.» Erano parole che dischiudevano alla mente gli ampi orizzonti della Verità, ma per la giovane età di Leonardo inoltrarsi nel cammino verso codesti orizzonti era ancora un’impresa impossibile. Ma non impossibile naturalmente. L’impedimento era dato dal pesante bagaglio di menzogne che gli era stato appioppato addosso fin dalle sue prime ore di esistenza. Un fardello da scaricare al più presto, ma in realtà la liberazione dai vincoli della menzogna, istituzionalizzata in una miriade di modelli, avrebbe richiesto del tempo. Fors’anche molto. Comprendere che la società è un pessimo frutto della paura, la quale non è di certo il miglior sentimento dell’uomo, e che la scienza insegue un’insensata chimera d’immortalità, poiché il Male non desiste mai dal tentativo di svalutare l’Esistenza e soprattutto le attinenti Finalità Esistenziali, non può essere una folgorazione immediata sulla via di Damasco. Né su qualsiasi altra via.
In seguito, tempo sufficiente, per Leonardo, ci sarebbe stato, ma a complicare ed infine a guastare irrimediabilmente le cose ci pensò la fatalità sociale, alle cui innumerevoli insidie è davvero arduo sfuggire. Leonardo venne condotto dalle amicizie, accondiscendendo in particolar modo alle volontà femminili, in luoghi di divertimento dove la musica investiva violentemente ogni cosa e, senza che egli neanche si appassionasse in modo particolare all’artifizio dei suoni, la conveniente ramificazione delle sinapsi finì con l’arrestarsi e il cervello di Leonardo, pur di ottima consistenza in origine, non progredì più di tanto nell’autodeterminazione di sé.
La musica sa suscitare emozioni, è indiscutibile, ma le suscita secondo se stessa, secondo intenti reconditi, e conduce la psiche di chi l’ascolta in quelle precise atmosfere in cui essa la vuole far pervenire. La musica può anche far spuntare la “pelle d’oca”, ma a questo punto è altamente probabile che anche la materia grigia venga adattata alla nuova struttura della pelle.
Quando la musica compì in Leonardo lo scempio che è solita attuare, egli non era ancora arrivato a comprendere che, se la musica era presente nei riti militari, religiosi e sportivi, qualche motivazione imbrogliona doveva pur esserci. Durante questi rituali, la musica accende un sentimento d’appartenenza che non trova riscontro nell’intima realtà dell’Io degli ascoltatori, e chiunque non stia ben accorto, e adeguatamente accorto lo può essere soltanto chi abbia consolidato la piena autonomia del proprio pensiero, corre il serio rischio di convincersi di appartenere sul serio proprio a quell’ambiente e a quella comunità che la musica ha evocati. Di conseguenza finisce col far propri gl’ideali, i principi e le regole di condotta di quel preciso ambiente e di quella precisa comunità. Ma, in verità, non è più se stesso: è una falsificazione, e nei suoi atti non v’è più alcun valore che li mantenga in significativa relazione con le Finalità Esistenziali. Infatti, e a comprova di ciò, tra i suoni della Natura, benevola nei confronti delle proprie creature, non vi è nulla che assomigli, neanche lontanamente, alla musica inventata dall’uomo. In una società allagata da maree di musica, il dialogo tra mente e spirito, ovvero l’intimo soliloquio vivificatore, stenta parecchio ad aver luogo e, troppo spesso, finisce col cessare definitivamente.
Per Leonardo, non essere a conoscenza dei subdoli effetti della musica, anche perché nessuno s’era preso la briga di renderlo consapevole di quella minaccia per l’autonomia della sua individualità, fu una lacuna che gli risultò fatale. E così, rattrappitasi per il disuso la predisposizione naturale all’introspezione riflessiva, silenziosa e solitaria, negli ultimi tempi, allorquando veniva assalito dalla preoccupazione per qualche imprevisto che avrebbe potuto scombussolare la linearità della sua vita e quella della sua famiglia, Leonardo non s’era mai spinto col pensiero oltre gli scenari che la sua immaginazione spersonalizzata gli presentava, tutti concernenti raffigurazioni di situazioni in cui lui avrebbe dovuto cavarsela nel suo lavoro senza l’ausilio dell’automobile. Questo gioco mentale di prove astratte di “sopravvivenza sociale in stato di difficoltà”, in cui Leonardo era solito impegnarsi con puntiglio durante la percorrenza di lunghi tratti di autostrada, egli non lo concludeva mai da vincitore. In particolare, l’automobile non gli risultava sostituibile con i mezzi di trasporto pubblici, per irrisolvibili problemi di puntualità, e l’assenza di puntualità era la prima nemica dei suoi affari. Inoltre, Leonardo non impiegava molto tempo ad elencare mentalmente una serie di altri inconvenienti. Servendosi del treno, ad esempio, sarebbe stato costretto ad anticipare di un giorno il suo arrivo in qualche albergo della località in cui il suo lavoro lo avrebbe portato. Il treno lo innervosiva, gli originava tensione a causa dell’impossibilità di scendere da esso a suo piacimento. Un riflesso del suo più ampio desiderio frustrato di libertà. Di conseguenza Leonardo si sarebbe snervato e stancato parecchio, cosa che non gli accadeva usando l’automobile, e quindi gli sarebbe diventato necessario riposare un giorno in più, prima di poter affrontare in piena forma i potenziali clienti, inizialmente sempre piuttosto ostici nei suoi riguardi, piuttosto che nei confronti delle sue proposte d’investimento. E ancora di un altro giorno avrebbe dovuto allungare la sua permanenza in albergo a causa degli orari, inderogabili nel regolare la disdetta di una camera. Senza un’auto a sua disposizione non poteva abbandonare l’albergo definitivamente, poiché non era in grado di preventivare quanti giorni avrebbe potuto richiedere la conclusione di una trattativa. Con la disponibilità di un’auto, invece, poteva tranquillamente disdire la camera, ove aveva trascorso la notte, e recarsi all’appuntamento. In caso di una risoluzione rapida della contrattazione, salutato il cliente, si sarebbe potuto dirigere senza indugio verso casa, o con il suo bel contratto firmato nella valigetta o con la delusione nella mente e nel cuore; diversamente, se la trattativa fosse durata più giorni, servendosi dell’auto non sarebbe stato un problema trovare un altro albergo, neanche a notte inoltrata. E non poteva accontentarsi del primo albergo che incocciava lungo la strada. Il suo lavoro, di certo, non gli permetteva di scendere in alberghi economici. Se per caso, evento infrequente ma non trascurabile, la persona facoltosa, contattata per una proposta d’affari, gli fissava un appuntamento nella hall dell’albergo in cui lui era alloggiato, Leonardo, per solide ragioni di rappresentanza, non poteva farsi trovare in una struttura alberghiera mediocre.
Di servirsi dei taxi, neanche parlarne. I suoi facoltosi clienti, spesso e volentieri, lo convocavano in lande sperdute, ove avevano le loro scuderie o imponenti aziende agricole, e quindi sarebbe stato inevitabile per qualsiasi tassista dover attendere in loco il termine del colloquio intrattenuto da Leonardo. E, magari, attendere per ore e ore, facendo lievitare sensibilmente le spese della trasferta lavorativa.
Di un taxi, avrebbe dovuto servirsene per forza nel caso fosse giunto in loco viaggiando in treno o in aereo, ma, se il treno lo innervosiva, il solo pensiero di salire su un aereo lo terrorizzava.
Insomma: la patente di guida e la proprietà di un’automobile rappresentavano per Leonardo un’assicurazione sulla vita. Sua e dei suoi famigliari. Con un’automobile, che doveva essere scattante e molto confortevole, soltanto una malattia grave sarebbe riuscita fermarlo.
Tuttavia, quando gli capitava di tirare certe somme, che nulla hanno a che vedere con il denaro, doveva ammettere con sincerità di non sentirsi del tutto a posto, di non essere soddisfatto del bilancio esistenziale riguardante il più intimo resoconto del suo dare e avere. Gli sembrava di aver dato genuinità senza tanta prudenza e di aver ricevuto in cambio soltanto artificiosità e, siccome da parecchio tempo non si curava più di approfondire con metodo le proprie sensazioni, questa considerazione piuttosto vaga lo impauriva impressionando il pensiero con una successione di flash che gl’illustravano stati personali di follia finanche ipotizzabili. Anche perché avvertiva che un grumo di tensioni non chiaramente identificabili gli stavano esaurendo, praticamente di soppiatto, la capacità di sopportazione. Tuttavia riusciva ancora a consolarsi con l’unica realtà che gli appariva chiara: una moglie splendida e due figliole meravigliose. E, caspita!, anche una confortevole automobile di lusso.
E’ abbastanza evidente che l’intelligenza umana (meglio sarebbe definirla in qualche altro modo, assai meno magnificante) abbia guastato tutto in maniera irreparabile, il che fa già infuriare più che abbastanza, ma constatare che questa intelligenza non capisce di aver già oltrepassato ottusamente la linea del “non ritorno” al vivibile sensato e che non ha intenzione di smettere la sua attività disfacente, surriscalda la reattività al massimo grado. La reattività di chi è riuscito, nonostante tutto, nonostante il quotidiano bombardamento di menzogne mediatiche, a mantenersi saldo di mente. Io credo che la capacità di sopportazione dovrebbe essersi esaurita in chiunque, dato che siamo arrivati al punto di dover convivere (in uno stato di totale subordinazione, per giunta!) con figuri che programmano con cinismo inumano stragi di esseri umani allo scopo di estendere il proprio potere e sopprimere le già limitate libertà civili per reprimere meglio i sacrosanti moti di ribellione che si vanno moltiplicando nel mondo in maniera esponenziale. E, mentre gli assassini continuano, impuniti, a dirigere le cose di questo nostro (nostro?!) mondo disfatto, altri ficcano le loro luride mani dove non dovrebbero mai osare di ficcarle e così, proprio in questi ultimi giorni apprendiamo che nella “terra prediletta dal Male” è stato dato inizio alla blasfema manipolazione volta ad originare embrioni misti (un po’ dell’uomo e un po’ di qualche altro animale). Embrioni artefatti, che la scienza, con il suo solito nero senso dell'ironia inconsulta, non ha avuto remore nel denominarli “Chimere”.
Chimere”! Oh cielo! Siamo in pieno regime di follia lucida! Ma, se tutto questo non dovesse risultare sufficiente a saturare i contenitori di sopportazione più capienti, basterà qualche rapida meditazione su acqua, aria, terra e cibo, per farli traboccare abbondantemente.
La storia ci insegna che uomini e nazioni si comportano con saggezza solo dopo aver esaurito tutte le altre alternative., osserva Abba Eban.
Pur intuendo chiaramente l’essenza del messaggio di Eban, non ne condivido l’ottimismo di fondo. A me sembra, invece, che proprio la Storia c’insegni che il ricorso alla saggezza da parte degli uomini, perfino in presenza dei disastri provocati a iosa dalle loro scellerataggini intelligenti, sia soltanto apparenza e che nulla abbia a che fare con un certo aspetto intrinseco e perpetuo della realtà. Gli stolti preferisco considerarsi folli piuttosto che impotenti. E nel mondo, di stolti o meglio: di diventati tali per educazione ricevuta, ce ne sono a gruppi su gruppi, a partiti su partiti, a popoli su popoli.
Nei singoli la follia è una rarità: ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche è la regola.”, sferza Friedrich Nietzsche.
In più folli si è, più si ride., ironizza sarcastico Dancourt. Spiritosaggine idiota, ma che rispecchia fedelmente la realtà, ad insaputa dell’autore stesso. Infatti, se il PIL aumenta, invece di piangere ci si rallegra, si ride. Perfino mentre si sta precipitando nella spaventosa voragine del non-ritorno, si ride. Eccettuato uno sparuto gruppo di avveduti, non contagiati gravemente dall’educazione sociale, ed escluso chi sta morendo di fame a causa dell’obesità altrui, tutto il mondo, anche quando si lamenta, in realtà sta ridendo… e ballando sotto le stelle a suon di musica incessante.
Il problema più grave, che io ritengo insolubile e padre prolifico delle sventure umane, è questo: “Come fa un folle a rendersi conto di essere tale?” Un folle continuerà imperterrito, senza soluzione di continuità, a lodare la propria intelligenza “superiore” e la “grandiosità” delle proprie opere, rimanendo per sempre incapace di prendere coscienza di sé. Per giunta, ci sono due aspetti allucinanti del problema gravissimo. Uno: il folle confida testardamente nella sua capacità di riparare i danni che ha fatto e perciò i danni continueranno a sommarsi ai danni fino alla distruzione totale; secondo: sostenuto dalla presunzione smodata di sé, si permette di stabilire i canoni secondo i quali giudicare chi è folle e chi non lo è. Lascio immaginare quale possa essere il risultato di codesta “intelligente” discriminazione.
Qualsiasi produzione di follia, che possa inserirsi nel mercato degli oggetti e dei valori del capitale, è subito presa in un sottile rimaneggiamento nosografico che fa di essa un’opera, una ricerca, un’intuizione, uno sprazzo di genio, la più grave disperazione o la passione più esigente.
E così, chi pubblica un suo scritto dal titolo “X” viene considerato un grande teologo. Misericordia! A parte tutto il resto che ci sarebbe da dire, io avrei terrore di un dio che abbisogna di teologi. E’ proprio con la sua stessa presenza che la teologia offre un sicuro indizio nel determinare che questa “disciplina” si occupa dell’elaborazione della menzogna ed esclusivamente della menzogna. Per nostra fortuna gli dei configurati dai vari teologi non esistono. Per nostra fortuna. Fortuna solamente extraterrena, però, poiché nel quotidiano le idee concepite dai teologi guastano parecchio e sono mortali più di quanto si riesca a percepire d’acchito.
Al contrario, quello che stona nell’economia, che intralcia la logica “universale” degli scambi o disturba la funzione permanente del plusvalore può aspirare al titolo di follia, nel rifiuto e nella segregazione.”, Jean-Claude Polack. (Psichiatra e psicanalista presso la Clinica di La Borde a Parigi)
Eh, già: la Verità stona parecchio in questo mondo diventato una fogna a cielo aperto. La Verità bandisce da Sé sia l’economia sia il plusvalore sia la logica degli scambi interdipendenti e tanto altro ancora. E, soprattutto, non tollera la politica. Sì, candore della Verità stona parecchio in mezzo alle tinte fosche e smorte dell’immondizia e il Sistema, dopo aver assediato la Verità con una quantità smodata d’immondizia e in quanto aggregazione resasi potente, ne approfitta per stravolgerla fino ad un punto che rimane assolutamente inaccettabile quantunque sia diventato realtà quotidiana: La ragione è la follia del più forte. La ragione del meno forte è follia., Eugene Ionesco.
Una realtà che non è affatto estranea al radicamento sociale di una condizione esistenziale penosissima: Su tre donne sopra i quarant’anni che vanno dal dottore per una ragione qualsiasi, una esce con la ricetta di un tranquillante. Questa prescrizione da parte degli esperti mette in moto nella società l’aspettativa da parte della gente di una medicina magica, che risolverà le difficoltà dell’esistenza. In questa tendenza c’è la specifica differenza di classe, che consiste nel fatto che le medicine e i prodotti simili sono usati più sui pazienti delle classi lavoratrici che su quelli della prima e seconda classe sociale, a cui si offre più spesso la psicoterapia. Le reazioni ad avverse situazioni sociali, come essere male alloggiati, subire privazioni economiche ed eccetera, sono così trattate spesso come malattie individuali. Ciò, in termini politici, rende possibile il perpetuarsi di questi problemi, annullando come malattia mentale la sofferenza delle vittime sociali. Anche le vittime, a cui venerabili esperti dicono che le loro sofferenze sono personali e non politiche, sono portate ad accettare la loro condizione e a rivolgersi ai benevoli guaritori per avere più medicine con cui curare la loro malattia. La religione ha aiutato a mantenere l’ordine stabilito dalla società quasi nello stesso modo e fece scrivere a Marx “la religione è l’oppio dei popoli”. Oggi si potrebbe dire che la droga, sotto forma di tranquillanti, è diventata la religione dei popoli.”, Lawrence Ratna. (Consulente psichiatra al Napsbury Hospital – Segretario dell’associazione Britannica di Psichiatria Sociale e della Campagna contro gli abusi della Psichiatria a fini politici.)
Dove infatti, se non nel radioso splendore della iatocrazia e dell’acquiescenza dei suoi servi, i pigmenti della pelle, gli occhi a mandorla, i geni, le proprietà e le diversità potevano trasformarsi indistintamente in piede del diavolo, in pericoli per il mondo e l’Umanità. In malattia dannosa alla comunità, nella magia più nera e in un’incandescente minaccia universale?In condizioni di capitalismo avanzato, malattia è l’unica parola adeguata per alienazione e l’unità di suicidio e omicidio ne è l’espressione sensibile. La malattia è l’ammortizzatore delle crisi del capitalismo e che, insieme con un cosiddetto essere sociale e sano, orchestrato proprio con il pretesto della malattia, soffoca, reprime e fa rigare dritto, irrimediabilmente, il cosiddetto proletariato industriale.Solo a partire dall’interesse preminente della iatrocrazia e dunque della sua affermazione, i medici possono continuare a pretendere, senza alcuna opposizione, il loro diritto a decidere e a imporre quelli che sono i bisogni, quel che a uno manca, quel che è di troppo, chi e che cosa non è in regola, insomma a trasformare in onnipotenza e moralità la loro civiltà, la fabbrica di idonei cadaveri, di esseri mancanti e di stati depressivi conformi al budget della morte mediante l’omicidio più perfido; sarà opportuno riprodurre la razza dei padroni nella provetta con la tecnica dei cromosomi e la chirurgia genetica, a sua immagine, ossia secondo il modello medico e quindi divino.L’uomo è la più importante delle forze produttive che sostengono il sistema e che di conseguenza sono in linea di principio malate.Jahvè: «Se tu obbedirai, non ti infliggerò nessuna delle malattie che ho inflitto agli Egizi, poiché io sono il Signore, il tuo medico.» (Mosè, 15,12), Wolfgang Huber. (Psichiatra, ha scontato quattro anni e mezzo di carcere duro dal ’ 72 al ’ 76, dopo essere stato espulso dal Policlinico Psichiatrico di Heidelberg con quaranta malati con i quali aveva fondato il Sozialistischer Patientenkollektif.)
Persisto nel pensare, con una riflessione analitica già suffragata dalla clinica, che la tecnocrazia industriale poggia sugli stessi fondamenti mistificanti delle altre reti istituzionali, notoriamente religiose. Questo tipo di organizzazione tecnocratica, reso irriconoscibile perché stiamo a credere a quello che dice, funziona in realtà alla maniera “umanamente divina” dei grandi sistemi politico-giuridici oggi ben noti, il cui bagaglio mitologico, anziché finire fra il ciarpame, serve dappertutto la causa della riproduzione gerarchica.Il persistente mistero delle celebrazioni giuridiche si proclama come una materia imperitura. Sul registro in cui si enunciano le regole, oramai riccamente modulate dell’adattamento sociale, bisogna tacere il delirio. Con l’ausilio delle “meravigliose” scienze umane, che propagano la benevolenza, la sicurezza in tutte le sue forme e la bontà dei nuovi capi, la gestione moderna del potere politico-giuridico colma le fughe dell’ideale e persegue il suo capolavoro: ridurre al silenzio.Noi sappiamo addirittura sempre meno di questo delirio, cioè del funzionamento intimo della mistificazione sociale, poiché le nuove scienze del potere, scienze oramai gentili e umane, proibiscono di andare a guardare. Non pratichiamo più, a quanto pare, il sacrificio; ci sono soltanto uguali. I capi l’hanno detto, dunque è vero. In realtà, questa menzogna del potere reitera la tradizione e i giuristi oggi sono pressappoco i soli a sapere che essa ripete, e ripete instancabilmente, un marchio insensato: il Testo (Bibbia, in particolare l’Antico Testamento). … Di questa follia la psicanalisi può dire qualcosa per il fatto stesso che gli analisti hanno a che vedere con il famoso inconscio che , invece, non tace mai e, secondo la formula dei giuristi, declama le proprie possibilità, se occorre anche con il silenzio. Il sintomo sta qui, quale prova autentica.Una cosa è sicura, tuttavia:se ci si addentra nel meccanismo dogmatico, si capirà meglio perché la psicanalisi è inaccettabile come scienza di Stato, perché questo meccanismo è quello stesso della confisca del desiderio con cui s’instaura lo Stato.”, Pierre Legendre. (Storico delle istituzioni e psicanalista, membro dell’ École Freudienne de Paris.)
Se, come affermo, il dire la verità è il “metodo” etico-linguistico essenziale della scienza (in senso teorico), qual è il “metodo” corrispondente che caratterizza professioni o gruppi come quelli dei preti, dei politici e degli psichiatri? E’ il dire metafore prese alla lettera, miti strategici e anche menzogne calcolate,metodi rivolti a far avanzare gl’interessi non solo di colui che parla, ma anche di quelli del suoclub. Qualunque altra cosa i preti, i politici e gli psichiatri possano dire o fare, devono, per mantenere una buona posizione, proteggere e promuovere la maggior gloria di Dio, la patria e la salute mentale”. Questo spiega perché non ci possono essere, a rigor di termine, scienze del clero, della politica e della psichiatria; ci possono essere soltanto critiche su di essi.”, Thomas S. Szasz. (Laureato in fisica all’Università di Cincinnati e in medicina all’University College of Medicine; ha compiuto il training psichiatrico all’Università di Chicago e quello psicanalitico al Chicago Institute for Psychoanalysis. Dal ’56 è professore di psichiatria alla State University di New York.)
Leonardo non era mai arrivato a un punto di consapevolezza esistenziale che gli avesse permesso di comprendere, senza la necessità di consultare testi specifici, come e perché ogni esplosione nevrotica abbia la sua miccia, più o meno lunga, nel sociale.
Un’altra brutta sciagura che l’uomo si è versata addosso durante la sua millenaria e intelligente collezione di errori.
Non essendo arrivato da solo alla comprensione di ciò, sarebbe stato molto utile per Leonardo leggere qualche scritto di Freud, il quale aveva ben intuito che all’origine di un certo tragico malessere, definito dai clinici con una gran varietà di nomi, c’erano le spontanee aspettative giovanili che, venute a cozzare con la dura monotonia regolata dall’illiberale assetto sociale, si erano disintegrate sprigionando una quantità di energia non più governabile dall’Io. Se, poi, avesse sfogliato le pagine di qualche testo più recente, sarebbe stato in grado di capire come e quanto la distruzione dell’ambiente naturale contribuisca ad acuire questa brutta specie di malessere, ma Leonardo non riusciva a ritagliarsi spazi di tempo da dedicare alla lettura. Avvertiva, di sicuro, l’impertinente stonatura dovuta al fatto che, dopo che odori e sapori erano stati oltremodo umiliati, la scienza scoprisse che proprio odori e sapori potevano costituire una valida terapia per contrastare il male oscuro, ma la sua mente era poco propensa a meditare oltre la constatazione del fatto in sé. Egli possedeva indubbiamente delle buone qualità originarie, ma gli mancava il tempo per svezzarle, vincolato com’era al ritmo necessario per acchiappare denaro.
Già otto ore giornaliere, spese per svolgere un lavoro che non piace, rendono la vita una partita chiusa, malauguratamente terminata anzitempo, ma per Leonardo si trattava come minimo di dodici. Come minimo, perché, se si considerava che anche il trasferimento in loco, come pure le colazioni e le cene d’affari, facevano parte integrante del suo lavoro, il conto delle ore saliva a sedici. Inoltre, disgrazia grave e forse la più grave, a Leonardo la propria attività piaceva parecchio. Eppure, ecco il punto dolente della questione lavoro in generale, l’attività praticata da Leonardo con soddisfazione non aveva attinenza alcuna con le Finalità Esistenziali per cui l’uomo E’ su questo pianeta isolato da tutti gli altri che affollano l’Universo. Isolato, e per la sua giusta Funzione voluto singolare, da un’Entità Onnisciente e Onnipotente, le cui Opere soddisfano con pienezza infinita finanche il più marginale dei “Perché?”. Solamente tempo perso, dunque, le sedici ore giornaliere che Leonardo dedicava in media a quella sua attività, e tempo malamente giustificato dalla necessità sociale, e unicamente sociale, di procacciarsi il maggior quantitativo possibile di libertà monetaria, scadentissimo surrogato della Vera Libertà assolutamente non considerato dalla Natura e privo di ogni valore sia per l’esperienza dello spirito nella materia sia per l’Ordine delle Cose volto al compimento del Progetto Supremo.
Questo, a grandi linee, lo stato esistenziale in cui si trovava Leonardo, ma, purtroppo, lui non era più in grado di far sua la consapevolezza di tutto ciò che avrebbe dovuto essere d’importanza massima nel determinare la correttezza della sua condotta di vita.
(continua - a presto!)
Lorenzo Lombardi